Architetto iunior a Palermo – Alessandro Troia

Studio di architettura e consulenza tecnica specializzata a Palermo

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Terzo Condono edilizio e diniego automatico

Il “Terzo Condono edilizio” in Sicilia si riferisce a una normativa che potrebbe permettere la regolarizzazione di alcune situazioni di abuso edilizio. Tuttavia, è importante sottolineare che la legislazione può cambiare nel tempo, e le condizioni e i requisiti specifici possono variare a seconda delle leggi regionali o locali in vigore.

Nel contesto di un possibile “Terzo Condono edilizio” in Sicilia o in qualsiasi altra regione italiana, è importante consultare direttamente le autorità locali o regionali competenti e cercare il supporto di un professionista legale o di un esperto del settore edilizio per ottenere informazioni aggiornate e comprenderne i dettagli specifici.

Per quanto riguarda il “diniego automatico”, le autorità possono respingere le richieste di sanatoria edilizia se non vengono soddisfatti i requisiti o le condizioni previste dalla legge. Ad esempio, se la costruzione in questione non è eleggibile per la regolarizzazione in base alle norme vigenti o se la documentazione presentata non è completa o accurata, potrebbe verificarsi un rifiuto. Tuttavia, i dettagli esatti sui motivi per cui una richiesta di sanatoria edilizia potrebbe essere respinta dipenderanno dalla legislazione specifica in vigore e dalle circostanze individuali del caso.

Non sono sanabili gli aumenti volumetrici nell’ambito del terzo condono edilizio: lo ha ribadito con una recente sentenza la sesta sezione del Consiglio di Stato

Non sono sanabili gli aumenti volumetrici nell’ambito del terzo condono edilizio. Lo ha ribadito con una recente sentenza la sesta sezione del Consiglio di Stato (sent. n. 1182 del 03.02.2023), precisando che il Comune, stante il divieto di sanatoria, non è tenuto neppure a specificare nel provvedimento di diniego la natura del vincolo che osta al rilascio del condono.

Il caso

La vicenda trae origine dal rilascio di una concessione edilizia per la costruzione di un’autorimessa interrata. In fase di esecuzione dei lavori, il proprietario, modificando la quota di imposta del solaio dell’autorimessa, aveva realizzato invece due unità immobiliari sulla copertura di quest’ultima. Munito di certificato di destinazione urbanistica dell’area, dalla quale non risultava alcun vincolo di inedificabilità, egli aveva presentato al Comune tre istanze di condono in base al Dl. 269/2003 (terzo condono edilizio) per sanare le nuove costruzioni prive di titolo abilitativo e le modifiche costruttive apportate all’autorimessa. Il Comune tuttavia aveva respinto le tre istanze di condono, adducendo a motivo del diniego la presenza di un non meglio specificato vincolo ambientale.

Il TAR, adito dal proprietario contro i dinieghi, aveva confermato la decisione negativa del Comune, ritenendo che sull’area insistesse un vincolo idrogeologico, vincolo diverso da quello menzionato nei dinieghi. Inoltre il proprietario lamentava di aver presentato la domanda di condono dopo aver verificato che nel certificato di destinazione urbanistica dell’area non fosse menzionato alcun vincolo.

La questione è stata esaminata dal Consiglio di Stato.

Terzo condono edilizio, diniego di sanatoria e vincoli di inedificabilità

Preliminarmente il Collegio ha evidenziato come la disciplina del terzo condono edilizio non ammetta la possibilità di sanare opere che comportino la realizzazione di nuova volumetria, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, tanto relativo quanto assoluto. Pertanto, per i Giudici di Palazzo Spada non sarebbe rilevante stabilire quale tipo di vincolo (se ambientale o idrogeologico) fosse esattamente richiamato nei provvedimenti di diniego, dal momento che in ogni caso la presenza di un vincolo paesaggistico avrebbe reso inammissibile la sanatoria.

Per di più i Giudici d’appello ritengono verosimile che il proprietario fosse a conoscenza del tipo di vincolo gravante sull’area, perché davanti al TAR egli stesso aveva prodotto una cartografia per dimostrare come l’immobile fosse ubicato oltre la fascia costiera dei trecento metri dalla linea di battigia di un fiume.

L’assenza di menzione del vincolo nel certificato di destinazione urbanistica non è stata considerata rilevante dal Consiglio di Stato, perché detto certificato “ha carattere meramente dichiarativo della regolamentazione cui è soggetta una determinata area”. L’appello del proprietario è stato dunque rigettato.

Per avere informazioni precise sulla situazione attuale in Sicilia e per comprendere meglio il motivo di un possibile rifiuto, ti consiglio vivamente di rivolgerti a un legale specializzato ad un tecnico professionista o alle autorità locali competenti.

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Destinazione d’uso effettiva o destinazione d’uso legittima…?

La “destinazione d’uso effettiva” e la “destinazione d’uso legittima” sono concetti distinti nel campo delle leggi edilizie e urbanistiche. Ecco cosa significano:

  1. Destinazione d’uso effettiva: Si riferisce all’uso reale di un edificio o di una struttura in un dato momento. In altre parole, è ciò per cui un edificio viene effettivamente utilizzato, indipendentemente da ciò che è stato originariamente progettato o autorizzato. Ad esempio, un edificio che è stato costruito come abitazione, ma viene utilizzato come ufficio, ha una destinazione d’uso effettiva di ufficio.
  2. Destinazione d’uso legittima: Si riferisce all’uso per cui un edificio è stato originariamente progettato, autorizzato e approvato dalle autorità competenti in conformità alle leggi edilizie e urbanistiche. La destinazione d’uso legittima è quella prevista dal permesso di costruzione o dal piano urbanistico locale. Qualsiasi deviazione da questa destinazione potrebbe essere considerata un abuso edilizio, a meno che non sia stata ottenuta un’autorizzazione specifica per un cambio di destinazione d’uso.

Le leggi edilizie e urbanistiche variano da luogo a luogo, e la questione della destinazione d’uso può avere implicazioni importanti, tra cui la tassazione, la sicurezza e la conformità alle normative. Pertanto, è importante rispettare la destinazione d’uso legittima di un edificio e, se si desidera cambiarla, è necessario ottenere le autorizzazioni e i permessi necessari dalle autorità competenti.

Irrilevante a tali fini il certificato d’agibilità che attesta unicamente la sussistenza dei requisiti di igiene e salubrità dei locali. La posizione della Cassazione sulla prova del mutamento della destinazione d’uso di un immobile

Definire con precisione il concetto di destinazione d’uso di un immobile non è così agevole come si potrebbe ritenere in quanto, spesso, si fa confusione tra la destinazione d’uso e la categoria catastale. Sono concetti che hanno non solo un contenuto sostanzialmente differente, ma anche un diverso ambito di operatività.

L’uno (la destinazione d’uso) ha rilevanza prettamente edilizia ed urbanistica; l’altro (la categoria catastale) rileva a fini meramente fiscali.

Poiché l’utilizzo improprio dei due concetti in questione può determinare conseguenze particolarmente negative dal punto di vista amministrativo e burocratico, occorre fare chiarezza ed approfondire adeguatamente la distinzione.

La destinazione d’uso di un immobile: definizione

La destinazione d’uso di un immobile, secondo l’articolo 9 bis, comma 1.bis del D.P.R. 380/2001 (TU Edilizia) è la classificazione che ad esso viene attribuita nel titolo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa, e/o da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile, o la singola unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.

Dal testo del vigente articolo 23 ter del D.P.R. 380/2001, ricaviamo che le categorie funzionali cui un immobile può essere destinato sono le seguenti:

  • residenziale;
  • turistico-ricettiva;
  • produttiva e direzionale;
  • commerciale;
  • rurale.

Ai sensi del medesimo articolo, il passaggio dell’immobile, per effetto dell’attività edilizia del proprietario, dall’ una all’altra di queste categorie costituisce mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante e, come tale, necessitante, salvo differente normativa regionale, di apposito titolo abilitativo (Permesso di costruire o SCIA).

Viceversa, fatta salva una diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali vigenti, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.

Destinazione d’uso e categoria catastale

A differenza delle categorie funzionali afferenti alla destinazione d’uso, di cui s’è detto, le categorie catastali sono utilizzate prevalentemente a fini fiscali, per determinare l’ammontare di tasse e imposte cui assoggettare un determinato bene.

Può, ovviamente, verificarsi che la caratterizzazione di un immobile a livello catastale non coincida con l’utilizzo indicato nel titolo abilitativo (appunto, la destinazione d’uso).

Per evitare, dunque, possibili inconvenienti andrebbe effettuata sempre una verifica in merito all’omogeneità delle due classificazioni, con l’obiettivo di sanare eventuali difformità.

La posizione della Cassazione sulla prova del mutamento della destinazione d’uso di un immobile

La questione relativa agli strumenti da utilizzare al fine di desumere l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso di un immobile è, da sempre, al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale, per le implicazioni pratiche che comporta, che, di recente, si è arricchito di una nuova, interessante, pronuncia della Suprema Corte: l’ordinanza n. 19759 del 20 giugno 2022.

Nel caso di specie, un condòmino, proprietario di un locale che da deposito/magazzino era stato trasformato in locale commerciale, aveva agito in giudizio contro il Condominio all’interno del quale si trovava l’immobile, chiedendo la condanna dell’ente di gestione al risarcimento dei danni subiti per effetto delle infiltrazioni d’acqua provenienti da parti comuni.

In particolare, chiedeva che la quantificazione dei danni, e della conseguente diminuzione patrimoniale e reddituale subita, fosse effettuata, a seguito dell’intervenuto mutamento di destinazione d’uso, utilizzando i documenti posti alla base della domanda risarcitoria. Vale a dire: le planimetrie catastali ed il certificato di agibilità prodotti in giudizio.

Rimasto parzialmente soccombente, sia in primo che in secondo grado, ricorreva in Cassazione, riproponendo in sede di legittimità le censure già sollevate in appello, e relative, appunto, alla mancata adeguata considerazione, a suo dire, come indici di redditività del bene, dei documenti prodotti in giudizio.

La Corte di Cassazione, ponendo fine al contenzioso, ha affermato a chiare lettere che, ai fini di comprovare il mutamento della destinazione d’uso del bene (da magazzino a esercizio commerciale), per consolidata giurisprudenza amministrativa, rileva unicamente l’esibizione di uno specifico titolo abilitativo edilizio.

Tale dimostrazione non può provenire né da una semplice planimetria catastale né, tantomeno, dal certificato di agibilità, atteso che tale ultimo documento ha la (diversa) funzione di attestare le condizioni di sicurezza e salubrità di un immobile (atte in sé a consentire l’utilizzabilità eventuale dell’immobile per usi commerciali), ma non può in alcun modo provare l’effettiva destinazione di un immobile, che deve invece risultare dal titolo amministrativo che ne ha legittima l’edificazione (Cons. Stato n. 5041/2019; Cons. Stato n. 3799/2018).

Se hai domande specifiche sulla destinazione d’uso di un edificio o sulla sua situazione legale, ti consiglio di consultare un professionista del settore edilizio o un avvocato esperto in diritto edilizio per ricevere consulenza adeguata in base alla tua situazione particolare e alla giurisdizione locale.

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CILA vietata su edifici irregolari

Il CILA, acronimo di “Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata,” è un documento utilizzato in Italia per comunicare l’inizio dei lavori edilizi alle autorità competenti, come previsto dalla normativa italiana. Tuttavia, in generale, la presentazione di un CILA è consentita solo per edifici e lavori edilizi regolari, cioè quelli che rispettano le normative edilizie locali.

Se un edificio è stato costruito in modo irregolare, cioè senza le necessarie autorizzazioni o in violazione delle normative edilizie, potrebbe non essere possibile presentare un CILA per lavori su di esso. In tali casi, prima di poter intraprendere qualsiasi lavoro di regolarizzazione o di modifica su un edificio irregolare, è necessario valutare la situazione in base alle leggi edilizie e urbanistiche locali e ottenere le autorizzazioni necessarie per regolarizzare l’edificio o per portare gli interventi in conformità con le normative vigenti.

Le azioni da intraprendere possono variare notevolmente a seconda delle leggi locali e della situazione specifica, ma solitamente coinvolgono un processo di regolarizzazione dell’edificio attraverso la presentazione di progetti e la richiesta di autorizzazioni alle autorità competenti.

Le opere assentibili con CILA su un’opera abusiva sono una continuazione dell’attività illecita precedente: qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l’abuso non sia stato represso, costituisce infatti una ripresa dell’attività criminosa originaria Anche gli interventi ordinari di manutenzione, se afferenti a un’opera abusiva, sono essi stessi illeciti.

La Cassazione, nella sentenza 18268/2023 del 3 maggio, ha ribadito un principio cardine in materia edilizia: qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l’abuso non sia stato represso, costituisce una ripresa dell’attività criminosa originaria, che integra un nuovo reato, anche se consista in un intervento di manutenzione ordinaria, perché anche tale categoria di interventi edilizi presuppone che l’edificio sul quale si interviene sia stato costruito legittimamente.

Il tutto per respingere il ricordo di un privato contro l’ordinanza di demolizione impartita su un manufatto abusivo.

Le opere e i rilievi aerofotogrammatici
Secondo gli ermellini, “appare un mero artifizio retorico l’insistere sul dato per cui le nuove prove atterrebbero alla creazione di volumi esterni, posto che qualsiasi opera abusiva (tranne quelle interrate) si connota per la sua portata “esterna”, trascurandosi, tuttavia, l’argomento dirimente indicato dalla Corte, e costituito, lo si ripete, dalla valorizzazione della realizzazione, nel tempo, di opere, quantomeno esaminate anche e necessariamente nella loro portata progressiva ed interna”.

L’opera abusiva ‘principale’ e i lavori di completamento
In tal senso, secondo la Cassazione, è del tutto coerente la “valorizzazione dei principi che delineano il perimetro entro cui un immobile abusivo può dirsi proseguito ed alfine ultimato, seppure attraverso la realizzazione di interventi “minori”, quali opere di rifinitura o attività che, se inerenti a strutture abusive, si noti bene, perdono la loro consistenza anche solo meramente manutentiva, e perciò all’apparenza lecita, per integrare, piuttosto, condotte più correttamente definibili di prosecuzione dell’opera abusiva”.

Il principio richiamato dagli ermellini è che non possono ritenersi lecite, ancorchè non richiedenti astrattamente autorizzazione o fornite di un formale titolo autorizzatorio, le opere che, seppur autonomamente e astrattamente qualificabili come interventi privi di rilevanza penale, siano realizzate in prosecuzione di precedenti illeciti edilizi mai previamente sanati o condonati.

CILA non applicabile su opere da eseguire su manufatti abusivi mai condonati o sanati
Si ricorda, che in tema di reati edilizi, il regime della comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) non è applicabile alle opere da eseguirsi su manufatti il cui originario carattere abusivo sia stato accertato con sentenza definitiva e che non risultino essere state oggetto di condono edilizio o di accertamento di conformità, poiché gli interventi ulteriori su immobili abusivi ripetono le caratteristiche di illegittimità dal manufatto principale, al quale ineriscono strutturalmente.

È fondamentale consultare un professionista legale o un esperto del settore edilizio per guidarti attraverso questo processo, poiché le leggi edilizie possono essere complesse e variare da una giurisdizione all’altra.

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Art. 20 della l.r. 4/2003 tettoie e verande

L’articolo 20 della Legge Regionale della Sicilia n. 4 del 2003 riguarda le “Tettoie e Verande” ed è stato emesso per disciplinare le norme relative a queste strutture nella regione siciliana. Tieni presente che le leggi regionali possono subire modifiche nel tempo, quindi è importante verificare la versione attuale e eventuali modifiche alla legislazione vigente.

Senza ulteriori dettagli o informazioni specifiche sull’articolo 20 della L.R. 4/2003, non posso fornire una spiegazione dettagliata. Tuttavia, questo articolo probabilmente stabilisce norme e requisiti relativi alla costruzione e all’utilizzo di tettoie e verande in Sicilia. Questi requisiti potrebbero riguardare dimensioni, materiali, distanze dalle proprietà limitrofe, e altri aspetti legati alla sicurezza, all’urbanistica e all’architettura.

1. Ambito di applicazione dell’art. 20 della l.r. 4/2003.

Chiusura perimetrale e nuova copertura. Breve nota a Tar Catania sent. 703/2021.

L’art. 20 della l.r. 4/2003 disciplina:

a) la chiusura di verande o balconi con strutture precarie;

b) la chiusura di terrazze di collegamento;

c) la chiusura di terrazze (non di collegamento) purché non superiori a mq. 50;

d) la copertura di spazi interni (cortili, chiostrine e simili) con strutture precarie.

Ai sensi di legge, inoltre, “sono da considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione”; inoltre, si definiscono verande “tutte le chiusure o strutture precarie come sopra realizzate, relative a qualunque superficie esistente su balconi, terrazze e anche tra fabbricati”; sono assimilate alle verande “le altre strutture, aperte almeno da un lato, quali tettoie, pensiline, gazebo ed altre ancora, comunque denominate, la cui chiusura sia realizzata con strutture precarie, sempreché ricadenti su aree private”.

Per lo più, ma non sempre, si tratta di interventi di chiusura perimetrale di volumi già delimitati superiormente da una (legittima) preesistente copertura; come nei casi di chiusura di balconi (tranne quelli dell’ultimo piano) o di tettoie già esistenti.

In taluni altri casi, può trattarsi di interventi relativi a spazi in cui ciò che manca è proprio la copertura superiore: tale è il caso degli spazi interni, già interamente perimetrati.

Vi sono poi delle ipotesi in cui mancano sia la copertura superiore, sia una o anche due delimitazioni laterali (in ipotesi di superficie quadrilaterale): è il caso delle terrazze di collegamento, in cui ciò che può essere chiuso è la porzione di lastrico solare interposta tra almeno due corpi di fabbrica (legittimamente) preesistenti.

Infine, vi è il caso delle semplici terrazze (diverse da quelle di collegamento), in cui la chiusura è consentita ove la superficie interessata non sia superiore a mq. 50; solo in questo caso la struttura precaria può concernere sia la copertura superiore che tutti i lati perimetrali.

Vanno considerati a parte i casi per legge “assimilati alle verande”: si tratta di interventi in cui si realizza la sola copertura superiore, ed eventualmente alcuni lati perimetrali, ma a condizione che almeno uno di essi resti aperto.

E’ stato osservato, altresì, che è ragionevole desumere – dalla necessaria precarietà delle strutture utilizzate e dalla loro facile rimovibilità, oltre che da una considerazione teleologica delle disposizioni in esame – che, anche nei casi in cui non sia posta una specifica limitazione quantitativa dalla norma, le strutture realizzabili in base all’art. 20 citato devono essere di limitato impatto, avuto anche riguardo all’edificio su cui insistono.

In proposito, sembra utilizzabile, tra i parametri di valutazione da applicare ai singoli casi, anche la surriferita misura di superficie indicata nella legge (50 mq.), il cui ragionevole multiplo andrà considerato, come parametro limitativo, anche per tutti gli altri interventi.

È ovvio, infatti, che interventi assai più estesi si realizzino con strutture adeguatamente proporzionate e, perciò, non precarie e di più difficile rimozione, tanto da esulare dal corretto ambito applicativo delle disposizioni in esame, specialmente in riferimento al citato art. 20 (arg. ex Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. riun., 3 settembre 2015, n. 771).

Va infine evidenziato che tra le norme di sicurezza che devono essere rispettate – anche per quanto riguarda le opere realizzabili ex art. 20 della legge in commento – sono ricomprese quelle che impongono, nei congrui casi, la denuncia al Genio civile, mediante deposito del progetto presso il relativo ufficio ovvero la previa autorizzazione in zone sismiche (cfr., ex plurimis, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. riun., 23 ottobre 2020, n. 275; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. riun., 7 luglio 2016, n. 806; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. riun., 7 agosto 2014, n. 843).

2. Opere precarie: definizione e classificazione.

Breve commento a Tar Catania sent. 1239/2021.

L’art. 20 della l.r. 4/2003 individua due requisiti sufficienti e necessari per la riconduzione delle opere alle fattispecie positivamente disciplinate:

a) la precarietà delle opere;

b) la collocazione su qualunque superficie già esistente su balconi e terrazze.

Nella sentenza in commento il Tar Catania, quanto al luogo di collocazione delle verande e al concetto stesso di veranda, ha ritenuto che “il Legislatore con il termine chiusura di verande non ha utilizzato un linguaggio adeguatamente tecnico, ma che ha comunque inteso riferirsi alla possibilità di chiudere con strutture precarie i volumi aperti almeno da un lato (o “semiaperti” almeno su un lato, se delimitati da ringhiere, muretti, balaustre o parapetti), già dotati di copertura; con la norma in esame, il Legislatore regionale si è spinto oltre, avendo espressamente sancito la possibilità di realizzare la “chiusura” anche di semplici “terrazze”. Ha quindi specificato che “… poiché la differenza fra “veranda” e “terrazza” (che funzionalmente si connotano, sia l’una che l’altra, come “continuazioni esterne” dell’abitazione, pavimentate in modo da assicurare la calpestabilità del suolo in condizioni di comodità e di fruibilità analoghe a quelle degli interni), consiste proprio nel fatto che con il termine “veranda” si intende un volume comunque di per sé già coperto, mentre con il termine “terrazza” – genericamente predicato – può intendersi anche una superficie calpestabile “scoperta” o “a cielo aperto” (fermo restando che entrambe sono delimitate, sugli “affacci”, da ringhiere, balaustre, parapetti, muretti, fioriere o altre opere volte a definirne i contorni), non resta che concludere che con il sommario riferimento alla “chiusura” di “terrazze” il Legislatore abbia inteso affermare il diritto di realizzarne, seppur sempre e comunque con strutture precarie, anche la “copertura”.

Sempre che, beninteso, la terrazza sia urbanisticamente “regolare” (siccome prevista dal progetto originario e realizzata in attuazione ad esso, o quantomeno esistente e catastalmente rinvenibile fin ab origine) e non sia stata realizzata, invece, in epoca successiva all’ultimazione delle opere di costruzione dell’edificio, abusivamente ed al surrettizio scopo di trasformare in “veranda” – gabellandola per originaria “terrazza” – una qualsiasi area di sedime attigua all’edificio.

In conclusione, con l’art. 20 della l.r. n. 4 del 2003, il Legislatore ha inteso consentire la trasformazione in verande, mediante strutture precarie ed entro il limite di superficie stabilito:

– sia di volumi e/o terrazze già coperti (aperti o semiaperti da almeno un lato);

– sia di terrazze “scoperte”.

E ciò sia al piano terra che ai piani superiori degli edifici …”.

3. Realizzazione tettoia di rilevanti dimensioni. Occorre il permesso di costruire?

Breve nota a Tar Palermo sent. 2483/2021.

Gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui accedono.

Tali strutture necessitano del permesso di costruire quando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all’edificio e alle parti dello stesso su cui vengono inserite o, comunque, una durevole trasformazione del territorio con correlativo aumento del carico urbanistico. Alle condizioni descritte, infatti, la tettoia costituisce una “nuova costruzione” assoggettata al regime del permesso di costruire (v. Consiglio di Stato sez. VI, 06/02/2019, n. 904; T.A.R. Campania Napoli Sez. IV, 14-05-2020, n. 1802; T.A.R. Napoli, sez. III, 19/02/2019, n.945; T.A.R. Napoli, sez. IV, n. 6107/2018).

Fonte sito: https://urbanisticainsicilia.it/tettoie-e-verande-in-sicilia-chiusura-perimetrale-precarieta-e-dimensioni/

Se hai bisogno di informazioni più specifiche sull’articolo 20 della L.R. 4/2003 o su come tali disposizioni possono influire sulla tua situazione o progetto, ti consiglio di consultare un professionista del settore edilizio o un avvocato specializzato in diritto edilizio. Questi esperti saranno in grado di fornirti una consulenza accurata basata sulla legislazione attuale e sulla tua situazione specifica.

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Graffiti Palazzo della Santa Inquisizione – Palazzo Chiaramonte Steri

Non esistono altri esempi al mondo dei graffiti ritrovati nel Palazzo della Santa Inquisizione

Il Palazzo della Santa Inquisizione, noto anche come Palazzo Chiaramonte Steri, è uno storico edificio situato a Palermo, in Sicilia, Italia. È uno dei luoghi storici più noti e importanti della città.

Il Palazzo Chiaramonte Steri è noto per i graffiti incisi nelle sue celle di prigionia. Questi graffiti risalgono al periodo in cui l’edificio era utilizzato come prigione dall’Inquisizione spagnola durante il XVI e il XVII secolo. Questi graffiti rappresentano testimonianze storiche e artistiche uniche e sono stati oggetto di interesse da parte di storici dell’arte e studiosi.

Gli interni del palazzo includono anche una serie di affreschi, tra cui il famoso ciclo di affreschi attribuito a Andrea da Firenze che raffigura l’Inquisizione. Il Palazzo Chiaramonte Steri è oggi aperto al pubblico come museo e offre ai visitatori l’opportunità di esplorare la sua storia e i suoi graffiti storici.

Questi graffiti e l’intero palazzo sono testimonianze importanti della storia e della cultura della Sicilia e offrono un’interessante finestra sul passato dell’Inquisizione spagnola e sulle persone che sono state imprigionate all’interno di questo edificio durante quei tempi. Se sei interessato a visitare il Palazzo Chiaramonte Steri e vedere di persona questi graffiti storici, ti consiglio di verificare gli orari di apertura e le informazioni relative alla visita presso il museo o l’ufficio turistico locale.

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Ars, via libera al “𝗡𝘂𝗼𝘃𝗼” 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼𝗻𝗼 𝗲𝗱𝗶𝗹𝗶𝘇𝗶𝗼 𝗶𝗻 𝗦𝗶𝗰𝗶𝗹𝗶𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗮𝗯𝘂𝘀𝗶 𝗶𝗻 𝘇𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗼𝘁𝘁𝗼𝗽𝗼𝘀𝘁𝗲 𝗮 𝘃𝗶𝗻𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗿𝗲𝗹𝗮𝘁𝗶𝘃𝗼: ma non passa la sanatoria in riva al mare

Per “NUOVO” condono edilizio in Sicilia  è importante notare che le leggi edilizie e urbanistiche, comprese le leggi riguardanti le sanatorie edilizie o i condoni, possono cambiare nel tempo e possono variare da una regione all’altra.

Un condono edilizio è di solito un provvedimento legislativo che consente ai proprietari di edifici di regolarizzare situazioni di abuso edilizio preesistenti, portando le costruzioni in conformità con le leggi edilizie vigenti. Tuttavia, la decisione di adottare un nuovo condono edilizio o modificarne uno esistente dipende dalle autorità regionali e locali e dalla legislazione nazionale.

Se hai domande specifiche sulla situazione attuale dei condoni edilizi in Sicilia o su eventuali nuove leggi o provvedimenti in merito, ti consiglio di consultare direttamente le autorità regionali o locali competenti, come l’Assessorato Regionale dell’Edilizia della Regione Siciliana o i comuni specifici in cui è interessato l’immobile. Inoltre, è consigliabile cercare assistenza legale da professionisti esperti nel campo del diritto edilizio per ottenere informazioni aggiornate e consulenza specifica sulla tua situazione.

Le sanatorie edilizie, o condoni, sono provvedimenti legislativi che permettono ai proprietari di immobili di regolarizzare situazioni di abuso edilizio o di violazione delle normative edilizie preesistenti. Tuttavia, la possibilità di applicare una sanatoria in riva al mare può variare significativamente da una giurisdizione all’altra e dipende dalle leggi e dalle regolamentazioni locali o regionali.

In molte località costiere, le leggi edilizie sono spesso più rigide e prevedono restrizioni specifiche per preservare l’ambiente naturale e la bellezza delle coste. Pertanto, la possibilità di applicare una sanatoria per edifici in riva al mare potrebbe essere limitata o addirittura vietata per garantire la tutela ambientale.

È fondamentale consultare le leggi edilizie locali o regionali e le autorità competenti per ottenere informazioni specifiche sulla possibilità di richiedere una sanatoria per un edificio in riva al mare nella tua area di interesse. Inoltre, è consigliabile cercare assistenza legale da professionisti esperti nel campo del diritto edilizio per ottenere consulenza specifica sulla tua situazione e comprendere appieno i requisiti e le restrizioni che potrebbero essere applicabili.

L’Assemblea regionale siciliana ha bocciato l’emendamento aggiuntivo al ddl edilizia che prevedeva la sanatoria degli immobili abusivi costruiti entro i 150 metri dalla costa prima del 1983 in Sicilia. Si tratta di tutti quegli immobili che non avevano potuto beneficiare della sanatoria nazionale del 1985. Presentato dal deputato Giorgio Assenza (Diventerà Bellissima) il testo, che ha suscitato la contrarietà espressa dalle opposizioni in Aula e dal governo regionale, è stato respinto a Sala d’Ercole con votazione segreta per soli due voti: 24 i pareri contrari e 22 a favore. “Non c’era alcuna intenzione di cementificare o sanare situazioni recenti di abusivismo selvaggio in Sicilia – ha detto il presidente dell’Ars Giafranco Miccichè -. Personalmente ero favorevole perchè si voleva porre rimedio a una serie di ingiustizie. Non credo che oggi abbiamo reso un buon servizio ai siciliani”, ha concluso. Ma c’è un giallo sul voto segreto: alcuni deputati della maggioranza ne contestano l’esito.

Bocciata la norma contestata, alla fine scatta il disco verde per il ddl edilizia approvato con 27 voti favorevoli, zero contrari e 16 astenuti. La norma ha incassato il via libera dopo un iter molto travagliato in Aula testimoniata dall’astensione, al momento del voto, del Pd e del M5s. Ancora più complicata è stata l’approvazione finale della norma stralcio dell’articolo 20 che prevede una sorta di “mini-sanatoria”. Il testo che è passato con un solo voto di scarto – 23 i pareri favorevoli e 22 i contrari – è un emendamento al ddl che di fatto attiva una sanatoria edilizia per le costruzioni realizzate dove esiste un vincolo di inedificabilità relativa e non assoluta.

La stampa regionale, assecondando le aspre polemiche politiche che l’hanno accompagnata, ha dato risalto alla recente approvazione da parte dell’Assemblea Regionale siciliana, alla seduta del 13.07.2021 e con un solo voto di scarto, d’un “nuovo condono edilizio”, riferito ad abusi perpetrati in zone sottoposte a vincoli urbanistici c.d. relativi (che non implicano dunque l’assoluta inedificabilità dell’area di intervento).

La disposizione che ha destato tanto scalpore è l’art. 20 del disegno di legge sottoposto all’ARS e non ancora approvato, che reca modifiche alla legge regionale 16/2016 di recepimento del Testo Unico Edilizia (DPR 380/2001).

In realtà, la disposizione non introduce alcun “nuovo condono edilizio”, limitandosi a fornire una interpretazione autentica (e per ciò retroattiva) della disciplina regionale che ha recepito le disposizioni statali relative al c.d. terzo condono edilizio (ed esattamente l’art. 24 della legge regionale 15/2004 che ha reso applicabile in Sicilia l’art. 32 D.L. 269/2003 convertito con legge 326/2003).

A depotenziare i rilievi mossi, v’è da dire che il Legislatore regionale, con tale disposizione interpretativa, non ha fatto altro che dare seguito ad un chiaro – benché per vero non unanime – indirizzo della giurisprudenza amministrativa regionale formatosi in materia (si vedano, fra i tanti: CGA pareri nn.291/2010, 102/2015, 545/2016; TAR Palermo, sentenza n.1209/2020; TAR Catania, sentenza n.717/2021).

A ben vedere, dunque, la nuova disposizione di legge regionale potrebbe assicurare maggiore certezza ed un certo snellimento procedimentale per la chiusura delle innumerevoli pratiche di condono ex lege 326/2003 ancora aperte presso i vari uffici tecnici comunali siciliani (evitando sperequazioni fra cittadini, senza peraltro preludere alla paventata sanatoria dei più gravi abusi edilizi o ambientali).

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